L’alluvione raccontata dalla penna di un vecchio amico, che continuo a ritenere un autentico fenomeno della narrazione, e non solo.
4 novembre 1966, di Riccardo Venturi
Che cosa fa una città alla vigilia di una catastrofe? La risposta più ovvia è: “vive”.
Normalmente, magari sotto una pioggia battente che
dura da giorni e giorni, ma alla quale nessuno, in fondo, fa troppo caso. Lavora, si riposa, va al cinema; il 3 novembre 1966 sono in funzione a Firenze circa settanta sale cinematografiche, e tra i titoli che più fanno cartello c’è “La Bibbia”, il kolossal di Cecil B.De Mille che stupisce per gli effetti speciali soprattutto nelle scene del diluvio universale e dell’Arca di Noè. Viene proiettato al Teatro Verdi, e la sala è ancora più affollata del solito: siamo infatti alla vigilia di un lungo “ponte” di tre giorni (il 4 novembre, anniversario della vittoria, era ancora una giornata festiva).
Le vetrine di via Tornabuoni già sfavillano per il Natale prossimo a venire; la città, come usava una volta, è pavesata di bandiere tricolori e gigliate.
Firenze si gode le ore che precedono il grande riposo; per la domenica è atteso il Foggia allo stadio Comunale, la Fiorentina di Hamrin è quarta in classifica e al “Chiosco degli Sportivi” sotto i portici di Piazza della Repubblica si discute animatamente sulla formazione e sull’avversario. Eppure piove, piove, piove; non smette un momento di venir giù acqua dal cielo. Scrosci improvvisi e violentissimi inframezzati solo da altra pioggia solo un po’ meno battente; una seccatura tremenda, ma prima o poi cesserà…
Eppure, dai paesi vicini non arrivano che notizie preoccupanti: a Signa, all’Incisa, a Pontassieve, a Montelupo accade un guaio dietro l’altro.
Diversi corsi d’acqua sono già tracimati invadendo campi,
case e paesi interi; intere vallata sono già sommerse da una coltre d’acqua e fango. Dal capoluogo sono già partiti i soccorsi: uomini, autopompe, ogni cosa che possa servire; e nessuno immagina, o vuole immaginare, che su Firenze sta per abbattersi la più spaventosa tragedia dei tempi moderni, superiore per ampiezza forse alla stessa guerra. La gente alza le spalle: “alluvione? non è possibile”.
Eppure, come dice un vecchio proverbio, Arno non gonfia d’acqua chiara. E più volte, nella storia, è gonfiato fino al punto di uscire dal suo letto e inondare la città. Alcune decrepite e dimenticate targhette appese ai muri del centro storico recano date lontanissime: la più recente è quella del 3 novembre 1844, ma ce ne sono alcune che ricordano una disastrosa inondazione avvenuta, incredibilmente, il 13
agosto del 1557. Ancora più lontana nel tempo, ma ricordata in terribili pagine del cronista Giovanni Villani, è l’alluvione del 4 novembre 1333, che fa crollare quello che già allora veniva chiamato “Ponte Vecchio” (di origine romana) e fa scomparire per sempre nelle acque del fiume un’antichissima statua del dio Marte 3 novembre, 4 novembre: siamo sempre a quelle date. E il bollettino meteorologico non lascia scampo: sull’Italia si è abbattuta una perturbazione da sud, calda, che si è scontrata con masse di aria fredda provenienti dall’Atlantico; e la Toscana sembra essere al centro dell’urto. Diluvia, e diluvia a vento. Alle 19.30 la radio parla di “piogge forti con estese possibilità di temporali, allagamenti e frane locali”; e comincia questa storia fatta anche di nomi, di nomi e cognomi di personaggi famosi, di persone qualsiasi e di luoghi.
Dice un altro proverbio: “Arno non cresce se Sieve non mesce”; e l’alluvione nasce proprio lì, nel Mugello attraversato dalla Sieve, oltre che nel Valdarno delle dighe. La Sieve è gonfia come non si ricorda da anni, i torrenti e i borri sono già usciti fuori; lo stesso Arno, poco a poco, è cresciuto fino a superare di otto metri il livello di guardia. Alle ore 23,04 del 3 novembre, mentre a Firenze la gente affolla ancora i cinema, i caffè ed i locali, un paese del Casentino sperimenta per primo la furia dell’Arno, un paese di cui i fiorentini non conoscono forse neppure l’esistenza: si chiama Croce di Memmenano e si trova fra Bibbiena e Ponte a Poppi. Neanche un quarto
d’ora più tardi, e la stessa Ponte a Poppi è invasa dalle acque. Gli affluenti, tutti al colmo della portata, scaricano nel grande fiume migliaia di metri cubi d’acqua.
Alle 23,27, quando lo spettacolo delle dieci sta per finire,
all’idrometro della Fornacina, sulla Sieve, il guardiano si accorge che la situazione è assai preoccupante. E’ suo il primo nome di questa storia: si chiama Umberto Sartoni. Dovrebbe telefonare a Firenze per avvertire che sta per accadere qualcosa di terrificante, ma si ricorda della lavata di capo che, l’anno prima, aveva ricevuto in occasione di
un’altra piena. Aveva allora telefonato a Firenze, ma non era successo niente e s’era dovuto beccare una parte seria per il procurato allarme; prende la cornetta in mano, combattuto, e decide di non farne di niente. “Ma sì, anche stavolta stai a vedere che tanto allaga du’ campi e stop…e io altri lisci e bussi non li voglio pigliare”.
In quel preciso momento, un gruppo di persone si trova a dover fronteggiare una situazione difficilissima creata dall’Arno, su un diverso punto del fiume: sono i tecnici dell’ENEL delle dighe di Levane e La Penna, nel Valdarno aretino.
Le dighe di Levane e La Penna hanno soprannomi sinistri: le chiamano “I mostri di pietra” o i “Vajont del Valdarno”. Sbarrano totalmente il corso dell’Arno proprio nel punto dove lascia il Casentino per risalire verso nord, a metà dell’arco che descrive inizialmente: La Penna è a sessanta chilometri da Firenze, Levane dieci chilometri dopo; curiosamente, quest’ultima diga sorge in una località dal nome ancor più sinistro, “Valle dell’Inferno”.
Sono, per l’epoca, due bacini di concezione modernissima e di enorme portata; costruiti per essere sfruttati dalla concessionaria toscana per l’energia elettrica, la Valdarno, sono stati rilevati dall’ENEL al momento della nazionalizzazione del 1961 ed hanno una capienza
complessiva di oltre tredici milioni di metri cubi d’acqua. Levane ha una struttura vagamente inquietante; le sue paratie sono altre quattordici metri e larghe dodici. Vi lavorano non molte persone in quella che già allora è una gestione automatizzata. Il capocentrale si chiama Andrea Zanaga; ci sono poi il suo vice, Danilo Carnasciali e, a turni di otto ore, un quadrista, un aiuto quadrista, un guardiano e tre operai addetti alla manutenzione.
La diga è sorta nel 1954 e, per la prima volta, appare seriamente minacciata. L’acqua nel bacino artificiale è giunta alle ore 17,21 del 3 novembre all’impressionante livello di 167 metri e continua a salire inesorabilmente; Zanaga, che è di origine veneta, si accorge con terrore dell’impressionante massa d’acqua che preme contro lo sbarramento e nei suoi occhi si materializzano immagini ben peggiori di quelle del Vajont: se la diga cede, un bacino idrografico abitato da milioni di persone potrebbe essere spazzato via.
I tecnici sono in preda all’angoscia più totale e lavorano senza un minuto di pausa, alla luce dei riflettori a vapori di mercurio. Si consultano e si guardano atterriti: l’acqua pigia sempre di più sulla diga, e se vien giù o la oltrepassa, quasi sedici milioni di metri cubi d’acqua cancellano mezza Toscana dalla carta geografica, compresa Firenze. In quei momenti, la spaventosa catastrofe del Vajont deve apparire a quegli uomini quasi come una barzelletta in confronto a quel che potrebbe accadere; e prendono la decisione di aprire le paratie, per lasciar defluire l’acqua liberamente. Telefonano al Genio
Civile di Firenze, con il “Disciplinare d’Impianto”, ovvero il manuale di istruzioni, alla mano, capitolo “Catastrofiche condizioni d’inondazione”; avvertono della situazione e della risoluzione presa, specificano che, con l’apertura delle paratie, l’Arno raggiungerà comunque una portata di duemila metri cubi al secondo e che si è scelto il male per evitare il peggio, la tragedia sicura per evitare un’apocalisse; e si attaccano alle sirene di allarme. Sono le 21,54 del 3 novembre.
Nelle vicinanze della diga ci sono cinque case abitate; le sirene vengono suonate perché la gente possa mettersi in salvo. In una di quelle case abita la signora Ida Raffaelli; al piano strada c’è la sua piccola pizzicheria, mentre lei abita al piano di sopra con una sorella più anziana e una figlia di diciassette anni. Il marito è morto da qualche anno. La ragazza sente la sirena della diga e avverte preoccupata la madre, la quale si fa un’alzata di spalle e sgrida quasi la figlia: “Sai quante volte suona quella sirena del cavolo? Se ci fosse qualcosa davvero di serio, verrebbero ad avvertirci di persona”.
Più in là, proprio ai piedi della diga, abita il fratello maggiore
della signora Ida, Lorenzo Raffaelli. In passato ha fatto il
traghettatore, uno di quei mestieri che ora non esistono più neanche nel ricordo, e naturalmente lo chiamano “Caronte”: non solo traghettava, ma lo faceva anche in un posto chiamato “Valle dell’Inferno”. Soprannome più naturale non poteva esserci. Anche lui sente la sirena, non si preoccupa e se ne va a dormire.
Ma alle 22 in punto suona ancora la sirena. I tecnici non possono lasciare il quadro di comando e venire ad avvertire la gente.
Ida Raffaelli, stavolta, esce a vedere; si fa sulla soglia e lancia un grido tremendo: sta arrivando una fiumana d’acqua incredibile, mai vista, mai immaginata. Urla alla sorella e alla figlia di scappare, di mettersi in salvo sul tetto della casa dall’abbaino; pensa che il fratello sia già morto, ed ha purtroppo ragione: il vecchio “Caronte” è la prima vittima dell’alluvione di Firenze, in un posto lontano. Il suo corpo verrà ritrovato quasi due mesi dopo al masso della Gonfolina, vicino a Empoli.
L’ondata sommerge in pochi secondi la pizzicheria della signora Raffaelli, che scappa sul tetto assieme alla sua famiglia. Sentono un rombo cupo sulla testa, e vedono passare ogni sorta di cose portate via dall’acqua: enormi tronchi d’albero, un maialino morto, uno scatolone di guanti di plastica, la vecchia Seicento di un operaio della diga, pietre. Le tre donne si sentono oramai già bell’e morte.
Ma a Firenze ancora non viene dichiarato lo stato d’allarme. Si vuole, come si suol dire in casi del genere, evitare che si diffonda il panico tra la popolazione; in realtà c’è ancora molta leggerezza e sottovalutazione del pericolo, e l’unica vera preoccupazione è il possibile crollo del Ponte Vecchio, flagellato da ogni parte da bordate d’acqua sempre più sconvolgenti e da ogni specie di oggetto portato dalla piena. Arriva una squadra di tecnici del Genio Civile, ordina al titolare del ristorante “Armando”, situato a pochi metri dal Ponte, di riaprire i battenti e si installa lì, in quell’improvvisato “quartier generale”, per tenere d’occhio la situazione. Uno di loro,
secondo la testimonianza del ristoratore, è arrivato a bordo della sua Fiat 1500 nuova di zecca, di cui va molto fiero; non cessa di parlarne ai colleghi magnificando le sue prestazioni. Non sa che non la rivedrà mai più.
Arriva la telefonata da Levane, come una mazzata. Paratie aperte.
Zanaga avverte dell’ondata immane che sta per abbattersi su Firenze.
Seguono telefonate in Prefettura, alla quale arrivano decine di
comunicazioni dello stesso, identico, agghiacciante tenore:
all’idrometro di Ugnano, che allora era in piena e lontana campagna, hanno appena segnalato che l’Arno sta diventando pericolosissimo. Cosa fare? In quel momento se ne pensano di tutte: far suonare le campane a stormo avvertendo i parroci, oppure addirittura la “Martinella” di
Palazzo Vecchio, che aveva suonato l’ultima volta in un alto momento tragico, l’inizio dell’insurrezione contro i tedeschi dell’11 agosto 1944. Si pensa anche di mandare a giro per la città automobili munite di altoparlanti per avvisare la gente, ma non se ne fa di niente.
Potrebbero essere rimedi pericolosi, peggiori della minaccia che si profila. La gente potrebbe correre per le strade nella fuga, calpestarsi, provocare ingorghi e incidenti. E se la piena arrivasse mentre la gente è per strada, sarebbe il massacro. Meglio non dare allarmi prematuri.
Oramai l’Arno corre a livello della strada; sono circa le due di notte del 4 novembre. Continua a piovere incessantemente, e sporgendosi dalle spallette si può quasi toccare l’acqua limacciosa che corre offrendo uno spettacolo impressionante. Ondate altissime si frangono contro le fiancate del Ponte Vecchio, che sembra dover crollare da un momento all’altro.
Il Ponte Vecchio. Tutti pensano solo al Ponte Vecchio, anche in Prefettura e al Genio Civile, e non si accorgono che, già dalle due e venti della notte, l’Arno sta cominciando a uscire senza misericordia.
La parte bassa di Pontassieve è sott’acqua; poco dopo, la gente è sui tetti a Rosano, alle Sieci, alle Falle; alle tre tocca a Compiobbi, alle tre e un quarto tocca al Girone ed entra inarrestabile in città.
Sul Ponte Vecchio i vetri delle oreficerie sono tutti in frantumi;
l’orafo Paris Venturi è tra gli orafi che sono svegliati dai vigili
urbani per mettere in salvo la loro merce preziosa, ma non fa in tempo ad aprire il bandone blindato che viene investito da una massa d’acqua, salvandosi a stento.Sono proprio gli orafi che, rendendosi conto che non solo il Ponte, ma tutta la città sono sull’orlo del baratro, tentano di avvertire un po’ di gente nei dintorni. Si attaccano ai campanelli, svegliano la gente e urlano di mettersi in salvo. Il Ponte Vecchio appare condannato, si aspetta il suo crollo da un momento all’altro e i vigili e la polizia sbarrano il traffico dai Lungarni, da via Por Santa Maria e da Borgo San Iacopo.
Alle tre e venticinque l’Arno comincia a straripare a Rovezzano e all’Albereta. E’ dentro Firenze. Paradossalmente, la sua corsa inesorabile viene un po’ arrestata proprio dal Ponte Vecchio che non si decide, vecchio baluardo, a crollare. Il Ponte fa come da “tappo”, e ne fanno le spese i quartieri a sud, specialmente Gavinana. Verso le
quattro, nella zona fra piazza Gualfredotto e via Niccolò da Uzzano, l’acqua sta già salendo ai primi piani delle case. Saltano totalmente la luce e il telefono. Ed è proprio a quell’ora che un cronista di “nera” della Nazione, Paolo Duni, torna a casa dopo il suo consueto giro notturno, a bordo della sua Cinquecento bianca.
Passa per il Lungarno alle Grazie, preme sull’acceleratore temendo di essere risucchiato via da un momento all’altro: l’acqua sta ormai rasentando il bordo della spalletta. Vede una cabina telefonica, non resiste e si ferma: deve telefonare al giornale. “Ragazzi, è grave, è grave sul serio. Si va tutti sott’acqua. Fate telefonate in giro.” Poi rimonta in macchina, passa incoscientemente sul ponte alle Grazie che vibra con una specie di oceano che gli passa sotto e se ne va a casa,
a Ponte a Mensola.
Alla Nazione vengono fatte le telefonate suggerite da Duni. Qualcuno chiama l’Acquedotto dell’Anconella e risponde una voce terrorizzata, quasi un rantolo. Il giornalista non capisce quasi niente; all’altro capo del telefono, che ancora funziona, c’è l’operaio in servizio notturno. Si chiama Carlo Maggiorelli. Le sue parole non lasciano alcun dubbio su quel che sta accadendo: “E’ un disastro, un disastro…qui s’affoga tutti, io non so che fare…alle una s’è staccato i motori…”
Carlo Maggiorelli, forse, avrebbe potuto mettersi in salvo, o forse no. Era una persona molto attaccata al suo lavoro, a quel che si dice.
Non si sa se volle restare fino all’ultimo al suo posto, oppure se, più semplicemente, gli fu preclusa ogni via di scampo. Il suo corpo fu ritrovato giorni dopo in un cunicolo dell’acquedotto, con ancora addosso la tuta ed una torcia elettrica serrata nella mano. Fu la prima delle 39 vittime fiorentine dell’alluvione.
Gli è stata dedicata una via.
Una di quelle vie che, se ti capita di passarci, ti chiedi sempre: Ma chi diavolo sarà questo, e che avrà fatto perché gli dedicassero una strada?
Via Carlo Maggiorelli va da Via di Villamagna a via delle Lame, proprio a due passi da quell’acquedotto che fu il suo posto di lavoro, il pane per lui e la sua famiglia, e la sua tomba.
Finalmente qualcuno comincia a darsi una svegliatina anche in Prefettura, in Comune, al Genio Civile. Le cosiddette “Istituzioni” che si stavano preparando alla “festa delle Forze Armate” sentono i bollettini meteorologici che parlano di più di ottanta millimetri di pioggia rovesciatisi su Firenze e sulla Toscana, una cosa inaudita a memoria d’uomo. Cominciano a arrivare telefonate da chiunque abbia ancora la linea in funzione, e i Vigili del Fuoco cominciano a uscire senza sosta; a Gavinana si parla già di due metri d’acqua per le strade (arriveranno quasi a cinque nel momento peggiore della piena, poco prima delle 17); gli scantinati di Borgo San Iacopo sono già sott’acqua; tutte le telefonate hanno il medesimo tenore, “abbiamo l’acqua in casa, fate qualcosa!”
Sono le cinque, è ancora buio pesto e un uomo, accompagnato dalla moglie, si aggira presso il Ponte Vecchio con un vecchio ombrello che proprio non fa capire che si tratta del sindaco di Firenze. E’ lo scrittore Piero Bargellini, in carica da soli quattro mesi; è stato svegliato dal questore in persona, che però gli parla ancora una volta solo del Ponte Vecchio tacendo su cosa sta già accadendo nel resto della città. Bargellini guarda, il Ponte sembra resistere e trae un sospiro di sollievo; ma le botteghe degli orafi non esistono più.
Lungo l’Arno corrono tronchi d’alberi d’ogni genere, lecci, olmi,
frassini venuti da chissà dove, forse dal Falterona. Assieme ai
tronchi si cominciano a vedere sempre più bidoni vuoti; compaiono le macchie oleose di nafta, e le prime carcasse di automobili. Il sollievo di Bargellini per la resistenza del Ponte Vecchio non lo rende cieco, e capisce che Firenze sta oramai vivendo una catastrofe.
Non torna a casa, e si installa in Palazzo Vecchio per seguire la situazione minuto per minuto. La sua casa, dove non torna quella notte, andrà sott’acqua come migliaia di altre.
Si raccontano, in quelle prime ore dell’alluvione, storie di ogni
genere; tragiche e buffe. Due coppie di fidanzati escono dal “Jolly Club”, un locale notturno che si trovava in Piazza Santa Maria Sopr’Arno, a ridosso del Ponte Vecchio; hanno ballato lo shake tutta la notte e non si sono resi conto assolutamente di nulla. Vanno a riprendere la macchina parcheggiata in via dei Bardi, e sentono un brontolio feroce provenire dal fiume; tornano sui loro passi, ritornano al locale dove ancora la gente sta ballando e danno l’allarme dicendo a tutti di scappare perché sta succedendo qualcosa di molto brutto. Fuggono tutti così come sono vestiti, senza neanche riprendere gli impermeabili; i “Rolls 3”, i suonatori del locale, si riparano dalla pioggia coi loro strumenti e si vede la scena surreale
di un tizio che scappa con la grancassa della batteria a mo’ di
ombrello sulla testa.
San Donnino è ancora un lontano borgo di pianura, di una pianura non ancora devastata dall’urbanizzazione. Una quieta frazione di campagna dove la Cina, allora, era molto lontana. Alle quattro e mezza il parroco, Don Mantellassi, viene svegliato da una telefonata; è un suo confratello che gli dice concitato: “Presto, si deve sonare le campane, sta venendo la piena d’Arno, c’è l’alluvione!”; e per la prima volta in quella notte da tregenda risuona il lugubre richiamo delle campane a martello. Don Mantellassi si attacca alle corde; nello spiazzo di fronte alla chiesa tiene una mucca, perché ancora nel 1966
il parroco di San Donnino poteva tenersi una mucca per avere il latte fresco tutte le mattine. La mucca è tranquillissima, come sempre, quasi imperturbabile; ma il sacerdote si accorge che qualcosa non va.
Non le vede le zampe. Le zampe sono sott’acqua, e la povera bestia guarda con occhi sonnolenti il dondolio delle campane, mentre la gente comincia a svegliarsi e a rendersi conto della situazione.
Si dice che, verso le cinque e mezzo del mattino e quando oramai è chiaro a tutti che Firenze non ha più nessuna possibilità di salvarsi dalla furia dell’Arno, il sindaco Bargellini sia al telefono con l’ufficio tecnico del Comune; ma che la comunicazione sia rimasta a metà. Salta tutto quanto: i centralini telefonici, la corrente, il gas. Firenze, già mezza sott’acqua, piomba totalmente nel buio. E’ indispensabile chiedere soccorsi prima che sia troppo tardi; ma l’Italia sembra non essersi minimamente accorta di quel che sta
accadendo in una delle sue principali città.
50 anni sono molto più di un secolo, se si parla di tecnologia. I mezzi di comunicazione, rispetto a quelli attuali, sono quasi preistorici; per chiamare Roma bisogna affidarsi ad un radiotelefono del Comiliter, con il quale si riesce a raggiungere il ministro Gaetano Pieraccini, fiorentino. Pieraccini riesce finalmente a rendersi conto che la situazione è gravissima, e decide di partire subito per Firenze con una colonna di soccorsi; assieme a lui sono il sottosegretario Ceccherini, anch’egli fiorentino, e il direttore della “Nazione”, Mattei. E qui accade l’incredibile: l’automobile blu e la colonna vengono fermate sull’Autostrada del Sole, prima dell’Incisa, da alcune pattuglie di agenti. Non si passa, è pericoloso. Pieraccini
ha voglia di dire che lui è un ministro della repubblica e che sta accorrendo con dei soccorsi; nulla da fare. Si incazza come una jena, cerca una cabina del telefono (prego tutti di rendersi conto della cosa: un ministro che cerca una cabina del telefono) e chiama il suo collega dei Lavori Pubblici, l’on. Mancini, dicendogli con voce alterata di lasciare il passaggio libero e di organizzare soccorsi adeguati. Mancini dice “sì sì” e riattacca.
Nel frattempo le acque dell’Arno si sono ingrossate ancora; la piena è ancora lontana dal culmine. Sono i momenti delle ultime foto prese sui lungarni, quando la massa d’acqua sta per uscire fuori e comincia a zampillare dalle spallette che presto cederanno. Come se non bastasse, la pioggia aumenta ancora.
Un altro giornalista della “Nazione”, Franco Nencini, sta uscendo alle sei del mattino dal giornale dove le rotative si sono fermate per il blackout. Neanche lui resiste, e invece di mettersi in salvo va nel vicinissimo Lungarno della Zecca Vecchia dove trova la gente in preda oramai al panico più totale. La città è scossa da lugubri suoni: il rombo del fiume impazzito, le sirene delle forze dell’ordine, dei pompieri e delle ambulanze. In quel momento l’Arno sembra quasi sospeso a pelo delle spallette; dei fiotti d’acqua cominciano a uscire
quasi timidamente, come una specie di ultima beffa.
Sono duecentocinquanta milioni di metri cubi di acqua e melma. La parte sud della città è già diventata un lago profondo quattro o cinque metri; un vero grande lago, il Trasimeno, non supera i sei metri. Tutta Firenze sta per trasformarsi, in una lunga e terribile giornata, nel quinto lago italiano come estensione. L’acqua corre a settanta chilometri all’ora già ai secondi piani delle case, piena di ogni sorta di sozzura, di carogne di animali, di carcasse di auto (oltre diecimila automobili risulteranno distrutte alla fine dell’emergenza), di nafta e altri combustibili, degli oggetti più
disparati strappati dalle case. In quella tregenda d’acqua, in città non c’è più un filo d’acqua: l’acquedotto dell’Anconella non esiste più. Nel centro storico, ancora non invaso, cominciano a saltare le fogne granducali; i tombini vengono proiettati in aria e dai cunicoli escono acqua, liquame, ratti morti. In quel momento qualcuno capisce che a tutto ciò potrebbe sommarsi il pericolo di un’epidemia.
Alle sei e venti una donna di 34 anni, Giuliana Stignani, sta vuotando uno scantinato in via di Rusciano, a Ricorboli. Si vede precipitare addosso una massa d’acqua per le scale e non ha scampo. Lo zoo delle Cascine è sott’acqua e il guardiano, Renzo Morozzi, decide di aprire le gabbie; ma il vecchio dromedario Canapone, il beniamino dei bambini, non ce la fa e annega lentamente.
Il culmine della piena giunge poco dopo, e l’Arno straripa con
violenza anche nel centro storico: San Frediano agonizza, Santa Croce viene investito da una muraglia di liquido giallastro che solo con fantasia potrebbe essere definito “acqua”. In una celebre foto scattata in Piazza dei Cavalleggeri, davanti alla Biblioteca Nazionale (costruita con grande intelligenza proprio davanti ad un fiume che, nella storia, ha alluvionato la città a intervalli regolari), si vede
l’Arno che comincia ad uscire sommergendo una Fiat 500 bianca parcheggiata in un piccolo spiazzo a ridosso della spalletta. Cede ogni cosa: l’argine all’altezza del Lungarno alle Grazie, i parapetti di fronte a Piazza Mentana, il muraglione di protezione del Lungarno Acciaioli. Firenze sembra morire a quell’ora.
Gli orologi si fermano: sono le 7.26 del 4 novembre 1966.